Preistoria

I reperti archeologici, rinvenuti nei territori appennici e risalenti al paleolitico superiore e medio, fanno presupporre la diffusione di riti e costumi sociali istituiti intorno alla pratica della caccia stagionale e la frequentazione delle grotte.
Il materiale più antico di industria musteriana fa supporre che i primi abitatori del territorio piceno, intorno al 4000 a.C., siano stati i Siculi. Essi apportarono una vita meno nomade legata all’agricoltura ed all’allevamento sedentario.
Costruirono tholos, muraglie ciclopiche, innalzarono dolmen che veneravano e, con il culto dei morti diffusero quello ad un’entità divina intesa come presenza “eterna ed invisibile”, che chiamavano Adrar, che in Berbero significa Montagna.

Il culto dei morti con sepoltura di uomo e cane, tra le popolazioni Sicule del Piceno, denota la credenza di una vita oltre quella terrena, proveniente dal culto di Adrar (chiamato in seguito Adrano i cui templi erano custoditi da cani).
Il culto è riconoscibile nella simbologia “ del cane guida e della sorgente di vita” che ritroviamo nel vaso piceno a testa di cane dove figura una Ecate seduta in trono, che proviene dal concetto di energia fluida ed eterna della Grande Madre identificata con la montagna.

I ritrovamenti in grotta testimoniano un culto praticato lungo tutta la dorsale Appenninica dall’Emilia sin oltre Pescara.
L’analisi dei reperti fa supporre una univocità di comportamenti rituali sociali che oscillano tra magia, rito simbolico e religione legati ai grandi simboli della Terra e dell’Acqua, collegati a riti di purificazione, di guarigione e divinazione.
Il neolitico affermò il culto della dea Cupra che si estese nei territori compresi nel quadrato Cupramarittima, Ancona, Cupramontana, Gualdo Tadino, Fossato di Vico, Norcia.

Nell’era concettuale dell’animismo i templi ed i monumenti funerari assunsero la forma della Grande Madre Terra. La collina, come la montagna con un omphalos di pietra sulla sommità simboleggiava il suo ventre gravido che accoglie sia la vita che la morte.
L’uovo di pietra di Sarnano, scolpito rozzamente in un blocco di calcare massiccio e che presenta caratteristiche del periodo megalitico, lascia supporre l’esistenza di un tempio arcaio di questo tipo, dove si praticavano i riti agrari della fertilità della terra.

Durante le età dei metalli le continue migrazioni diedero luogo al progressivo popolamento delle zone selvagge e, avvicinando sempre più i confini, determinarono le prime incursioni.
Nacquero l’industria delle armi da guerra e contemporaneamente le prime divinità maschili della forza.
Mentre in Grecia le divinità maschili affermavano il loro potere, nel culto oracolare dei territori italici hanno sempre manifestato l’aspetto fecondatore secondario.
In tutta l’area appenninica si adorava una dea Tellus Cyprum, detta anche Nemesi o Vesta e più tardi Nortia, riconosciuta come la produttrice di ogni necessità della vita, sinonimo di provvidenza e destino.
Sembra che il suo tempio più antico sorgesse sul fianco del Monte Patino mentre il suo oracolo doveva dimorare sulla montagna che oggi chiamiamo Sibilla.

I miti ed i riti che costituirono il culto della Grande Madre venerata sull’Appennino sono l’espressione dello spirito religioso dei nostri antenati piceni.
Con i riti agrari, ed in particolare con il diffusissimo sacrificio del grano, che ancora oggi rivive nelle feste popolane delle “cove” e delle “canestrelle”, si riproduceva il ritmo della vita, il rito iniziatico e misterico di primavera “ver sacrum” sotto la montagna sacra. L’aspetto divinatorio era la sua massima espressione.
Ancora oggi nelle tradizionali “pire” accese per illuminare la via alla Madonna di Loreto vive ancora lo spirito degli antichi adoratori del fuoco sacro della Madre Terra.

Le sommità dei monti, furono aree sacre alla dea dalla testa coronata, identificata con la montagna, dove nel fuoco sacro la divinità solare si univa a lei attraverso la pioggia.
Il Monte Sibilla per le sue caratteristiche particolari, colore rosso della roccia Marnosa, corona intorno alla vetta che sembra staccarsi dal resto del corpo della montagna, caverna, con sorgenti e fiume ai suoi piedi, nonchè pascoli ricchi di erbe e fiori unici, richiama fortemente l’idea che gli antichi si erano fatta di lei in ogni parte del Mediterraneo.
In Lidia, i colonizzatori del territorio appenninico, avevano lasciato una dea coronata assisa sul monte Sipilo a declamare i fati, ai suoi piedi il dio della fertilità aveva forma di fiume che da essa scaturiva.
Lì, sulla terra rossa di “Eritre” era nato il culto all’oracolo il cui nome era unicamente Sibylla.

Sugli Appennini, dentro la grotta sopra la corona, la ritrovarono a vegliare ancora sul loro destino.

La conoscenza dei “Fati” è stata la più grande aspirazione di tutti i popoli e dei loro regnanti, in quanto essa significava conoscere l’essenza della vita, il significato del cammino dell’uomo nel buio della storia.
Gli oracoli rispondevano al bisogno di credere che la vita non può finire con la morte.
I culti misterici della Grande Madre erano un connubio tra il potere generativo della Terra, quello fecondativo delle divinità maschili dell’acqua e quello germinativo degli spiriti antenati.
Attraverso il lago Averno era possibile, con sacrifici ed offerte, invocare gli spiriti rivelatori dell’oltretomba.

Dionisio di Alicarnasso, nella “Storia di Roma arcaica”, riferiva “ …i sabini considerano il Lago sacro alla dea Vittoria, e coloro cui compete la dignità sacrale per poter accedere alla sorgiva, salgono sull’isoletta che si trova nel lago e compiono sacrifici prescritti per legge”. L’antico nome del Lago di Pilato era Lago di Nortia o Lago Averno di Nortia, e nelle cartine del 1600 e 1700 il Monte Vettore è indicato come Vittoria.

Il santuario oracolare dei templi della Grande Madre era generalmente una grotta naturale montana, dove i postulanti, durante la consultazione, prendevano posto su sedili intagliati nella pietra.
Da un antro più interno, detto “camera segreta”, l’oracolo, purificatosi con l’acqua della sorgente sacra, pronunciava i suoi responsi.
Nella descrizione del 1420 di Antoine De La Sale la grotta della Sibilla presentava le stesse caratteristiche: sedili intagliati nella roccia, passaggio per un antro più interno dove scorrevano le acque carsiche.
Plutarco con lo straordinario mito della “Sibilla divenuta la Faccia della Luna”, fa di essa la fonte delle varie forme di divinazione del culto italico. Quando parla del “ centro oracolare in una grotta sacra situata su una vetta orientata verso il tramonto estivo” sembra proprio che parli della Grotta del Monte Sibilla.