L’Età antica
Nell’ultimo millennio a.C., quando si era affermato ovunque il potere iniziatico e oracolare dei culti femminili, nacque Roma animata dal più grande spirito eroico di tutta la storia.
In una leggenda picena, la Sibilla ne preannunciò la nascita, mentre in due racconti popolari del Lazio Enea avrebbe mangiato le mense consacrate nei templi oracolari italici.
In un anonimo “De origine gentis romanae” si dice che Enea fuggito da Troia, sia sbarcato sulle coste del Lazio da dove raggiunse “la Sibilla che profetava il futuro ai mortali e viveva nella città dei Cimmeri”.
Eforo, distorcendo una leggenda popolare, collocò la Sibilla Cimmeria sul Monte Barbaro del Lago Averno di Cuma, creando confusione con la più nota Sibilla Cumana. Ma presso il Lago Averno di Cuma non fu mai trovata alcuna traccia di un centro oracolare come quello descritto.
Virgilio riportò una versione modificata della storia originale latina, allo scopo di adattarla alla sua opera.
Ne venne fuori un ibrido tra la tradizione oracolare Greco-Cumana e quella italica.
La Sibilla, come l’oracolo italico, utilizzava foglie di quercia, vegliava sul mondo degli spiriti, viveva nella profondità della terra, ma come l’oracolo greco, era invasa da Apollo e parlava in stato di trance.
Nell’Eneide Virgilio ambientò la consultazione della Sibilla nell’Antro di Cuma anzichè nel tempio di Apollo, ma recentemente l’Antro è stato interpretato come una struttura difensiva risalente al IV – V secolo a.C. e rimaneggiata in tarda età imperiale.
Enea come la nascita di Roma sono legati alle tradizioni oracolari locali.
Secondo Plutarco, Romolo per il cerimoniale della fondazione di Roma sul colle Palatino eseguì le prescrizioni dei “riti misterici” dei riti italici di primavera durante i quali piccoli nuclei di giovani, guidati da un condottiero divino, partivano alla ricerca di una terra vergine dove sarebbero sorti una nuova città ed un nuovo popolo. Nella leggenda, il divino Pico (dodicesimo re di Norcia quasi contemporaneo di Enea) guidò i sabini nei territori piceni.
A Numa Pompilio figlio di Pomponio da Norcia, successore di Romolo, la tradizione attribuì tutte le istituzioni religiose di Roma. Egli vi avrebbe introdotto le principali divinità sabine come Giano, Vesta, Marte e Diana Nemorense (Nemesi-Nortia).
La leggenda lo vede spesso consultare l’oracolo della quercia Egeria che “possedeva spelonche presso la sorgente” nel bosco di Nemi.
Il quinto re di Roma, l’etrusco Tarquinio Prisco, aveva sposato Caia Cecilia Nursina e forse proprio grazie alla sua influenza, volle dare alle “sortes” una veste pubblica con i famosi “Libri fatalis” in seguito chiamati “Libri Sibillini”. Essi indicavano i rituali o ponevano divieti e prescrizioni, ovvero determinavano il destino.
Furono custoditi nel Sancta Santorum del tempio sul Campidoglio dedicato alla “triade capitolina”.
Plinio il Vecchio attribuì a Tarquinio anche le tre statue del foro chiamate “Tria Fata” o “i fati delle tre località” che nel periodo Augusteo erano conosciute come Sibille o Parche.
Ma quali erano le località? Cuma, Tivoli e la terza era forse Norcia?
Nella leggenda latina una vecchia offrì a Tarquinio Prisco nove rotoli di Fati. Dopo averne venduti solo tre e distrutti gli altri sei, ella sparì verso una destinazione sconosciuta. Roma, influenzata dalla tradizione greca, considerò la profetessa itinerante una Sibilla proveniente da Eritre, ma non la associò mai alla Sibilla Cumana ed al culto di Apollo.
Infatti dopo la distruzione dei Libri Sibillini nell’incendio dell’83 a.C., la commissione che si occupò della ricostruzione degli oracoli effettuò una lunga ricerca nei principali centri oracolari dell’impero ma non incluse Cuma nell’elenco.
Fu Varrone il primo ad identificare la vecchia profetessa dei Libri Sibillini con la Sibilla Cumana.
Ma Pausania, nel secondo secolo, dichiarò di non aver trovato alcuna traccia di divinazione a Cuma ad eccezione delle ceneri della Sibilla che le guide mostravano nel tempio di Apollo.
In tutti i territori italici, invece, gli oracoli sibillini circolavano in forma non ufficiale a livello popolare. Da Augusto a Tiberio, l’impero cercò ripetutamente di raccogliergli per porli sotto la propria custodia.
I cosiddetti “Fatidici libri” per lo più erano trattati di magia o elenchi di formule rituali per ottenere il governo del destino. I tempi stavano cambiando, e all’inizio dell’era volgare gli uomini non si accontentavano più di conoscere il destino affidandosi completamente al fato. Dall’oriente, con la romanizzazione dell’impero, era arrivata una nuova ventata di magia che rafforzò il culto delle divinità telluriche e mise a tacere tutti gli oracoli di Apollo.
Con la diffusione della pratica del maleficio in tutti i templi delle divinità del destino come quelli della dea Preneste e dell’Argentea Nortia, avvenne una sorta di fusione tra magia e preghiera.
La forma più semplice era costituita dall’atto di trafiggere con un chiodo e il nome dell’oggetto del maleficio inciso su una tavoletta o laminetta che poi veniva sepolta nella terra.
Il ritrovamento dei chiodi nella chiesa di S. Maria Argentea, testimonia che a Norcia la madonna ereditò dalla dea arcaica il potere di togliere i malefici.
Una conseguenza fu lo sviluppo del culto alla dea Fortuna o Bona dea, furono ampliati, restaurati o addirittura ricostruiti tutti i templi delle provincie romane dove si consultavano le Sortes e si svolgevano le cosiddette “facturae” (ovvero i sacrifici per ottenere incantesimi e malefici “facere rem sacram”).
Al tempo dell’invasione Gotica sappiamo che i Romani facevano seppellire dai sacerdorti pezzi d’argento simbolo della dea Bona Nortia Argentea, nelle terre di confine come maleficio contro gli invasori.
Svetonio Tranquillo nella “Vita dei Cesari” riferì che Vitellio Aulo, imperatore di Germania durante il triunvirato con Galba ed Otone, nel giugno del 69, dopo aver sconfitto Bedriaco ed Otone si recò dall’oracolo di Nortia insieme al suo esercito, per ringraziarlo con una sacra veglia.
Trebellio Pollione nella “Vita di Claudio 2° il Gotico” riferì che l’imperatore consultò l’oracolo dell’Appennino tra il 262 ed il 268.
La Sibilla e il cristianesimo
I padri della chiesa trovarono un’alleata preziosa nella Sibilla che divenne la manifestazione di dio, custode dei suoi dogmi capitali, profetessa di Cristo, che illuminò il cammino dell’umanità pagana verso il cristianesimo.
Il messaggio inconfutabile della Sibilla era la garanzia della parola di Dio agli uomini.
Nel 148 Erma, con l’opera “Il pastore” diede alla Sibilla la nuova veste morale e spirituale.
Egli narrò di averla incontrata sulla strada proveniente da Cuma mentre si dirigeva verso oriente per rivelare il messaggio di Dio.
Così la Sibilla non fu abbandonata tra le rovine del tempo pagano, passò alla nuova religione in maniera emergente. Mentre la chiesa le riconosceva un altissimo valore, la sua fama si diffuse ovunque arrivando ad offuscare quella delle divinità di cui era stata oracolo. Con il suo nuovo ruolo di regina sostituì l’oracolo dell’Appennino. La scelta fu forse una conseguenza del fatto che tutte le Sibille classiche già tacevano da tempo. L’oracolo dei Monti di Norcia era l’unico che potesse interpretare il ruolo della Sibilla cristiana.
Si diffuse la leggenda della Sibilla Cumana condannata a vivere in eterno nella profondità della terra per aver peccato di superbia essendosi considerata degna di concepire il Figlio di Dio.
Intorno al 160 si erano formate alcune sette cristiane (una di queste era detta “dei sibillinisti”) che riconoscevano nella profetessa la massima autorità cristiana.
Nelle montagne dell’Appennino, impregnate di elementi pagani e cristiani, continue processioni di eretici, pellegrini e penitenti frequentavano gli antichi tempietti sulle sommità, i boschetti e le caverne santuario, le sorgenti sacre dove cercavano conforto e rivelazione spirituale alla presenza della Sibilla Appenninica.
L’editto di Costantino sulla libertà di culto diede il via al crollo di tutte le antiche religioni pagane.
Nonostante il cristianesimo fosse divenuto religione di stato, il processo di evangelizzazione fu lento e difficile.
Mentre l’imperatore cristiano e Sant’Agostino ricoprivano la Sibilla di santità, Ermes d’Aquileia, ricostruiva i suoi oracoli in base alla nuova morale cristiana ed ai suoi dogmi.
Così le antiche profezie sibilline ricomparvero sotto il nome di “Oracula Sibyllina”, riportando alla luce gli elementi classici, pur privati delle parti originali ritenute troppo pagane.
La Sibilla, nei nuovi oracoli, si dichiarava nuora di Noè e, pur dividendo ancora le età in metalli, aggiungeva un’ulteriore età dell’oro relativa all’arrivo del Cristo Salvatore del mondo. Preannunciava il giudizio universale esortando l’uomo ad espiare le sue colpe.
Da tutto ciò nacque la leggenda dei discendenti di Noè che dopo il diluvio si sarebbero diretti verso la terra di Enotrio, rimasti incantati dalla meraviglia dei Monti Azzurri, si sarebbero stabiliti ai piedi della Montagna Sacra dove avrebbero fondato Isola e Montemonaco.
La chiesa durante la lenta e costante opera di evangelizzazione, si limitò ad allontanare il culto pagano dalla sfera pubblica. Ma mentre nelle città le più antiche forme di religiosità pagana furono via via abbandonate, nelle campagne e sui monti esse erano sempre vive. La terra nutrice e la natura selvaggia erano sempre le artefici del destino, il loro potere era diretto poichè la vita di ognuno dipendeva da esse.
I culti agrari non decaddero neppure dopo il divieto definitivo del culto pagano da parte di Teodosio. Nei territori montani le antiche religioni naturaliste si fusero con magia e pratiche superstiziuose. La magia proveniente dalla pratica “dei malefici” e delle “sortes” del culto della dea Nortia, era un’arte praticabile tollerata dalla chiesa, la sua diffusione fu massiccia ed incontrastata.
Ebbero così origine una lunga serie di credenze legate all’invidia ed al malocchio che culminarono nei riti misterici per ottenere dagli antichi “dei manes” il potere occulto di agire sulle forze della natura, sugli uomini ed animali.
Fu grazie ad un lentissimo processo di sincretismo che, intorno al quarto secolo, l’Argentea Nortia, dea della Fortuna, fu chiamata Santa Maria Argentea ed il suo tempio convertito a tempio cristiano da S.Feliciano vescovo di Foligno.
S.Maria Argentea ereditò dalla dea Nortia il potere di togliere i malefici mediante l’uso di amuleti sacri come “l’Agnus dei”che ancora oggi contiene il sale purificatore ed il grano sacrificale della dea arcaica; mentre la Sibilla Appenninica ereditò tutte le altre funzioni relative al mondo ctonio degli spiriti rivelatori. Le sacerdotesse del tempio, sostituite dalla gerarchia maschilista cristiana, divennero le sue fate.
Le invasioni barbariche medievali integrarono le tradizioni divinatorie appenniniche con molti riti religiosi celtici (i presunti sacrifici umani al Lago di Pilato dedicati alle divinità infere potrebbero derivare dai riti propiziatori e di invocazione celtici come pure alcuni motivi dominanti delle leggende popolari).
Nasce la leggenda del “regno della Sibilla”
Le guerre del VI e VII secolo condussero al feudalesimo col suo sistema autarchico, la cultura fu completamente clericizzata. Solo con l’incoronazione di Carlo Magno ripartì un programma culturale inserito nella generale aspirazione di resuscitare l’antichità classica. Nacque la società cavalleresca, favorita dalla chiesa, con tendenze mondane e religiose. E’ l’epoca del sacro e profano che invade i costumi, nelle corti e nel clero.
Nascono le “saghe” eroiche. Episodi storici poco coerenti tra loro si intrecciano a miti classici rivisitati. Sono “Le chansons de geste”, leggende delle tradizioni popolari che dalle vie di pellegrinaggio si diffondono in ogni dove. Dalla cultura contadino-pastorale, ricca di segni magici, di formule segrete, di veggenti, streghe, fate e maghi erboristi, nasce la leggenda del “regno della Sibilla” che esprimeva la voglia di liberalizzazione dal dominio clericale e padronale.